Decrescere per ritornare felici.


2012-11-06

Pubblichiamo questa bellisima poesia-testimonianza di Laura Maria Zanetti *, invitando il lettore a riflettere sul suo profondo significato. È forse arrivato il momento di recuperare una dimensione delle cose che torni a rispettare maggiormente la nostra natura e la sopravvivenza stessa del Pianeta ? È forse giunto il momento di riflettere maggiormente sul significato di "necessità di produrre" o "produrre per necessità" ?

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* Credo che all’età di quattro anni il mio mondo sia stato di tipo bidimensionale: il paese d’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno in montagna, nella casa del nonno. Così che il ricordo di un’altra geografia è  acceso come papaveri a maggio.
Fu la nonna  a farmi scoprire Borgo. Partimmo con l’aria fresca del mattino un mercoledì, giorno del mercato, prendendo il sentiero tra i castagni con il rumore dell’acqua del Ceggio. Il ponte stretto, alto e a curva era davvero il “ponte” tra l’umanità di Telve e quella piccolo borghese di Borgo. Ero abituata al rumore di un’altra acqua, quella del Maso, che correva giù giù tra pascoli e maggenghi confidenziale a volte, a volte scanzonata fino all’incontro con la Brenta.
Volevo capire dove scorresse quell'acqua- altra, quando un maggiolino ruppe il  silenzio. E poi un altro  e un altro ancora. Staccai la mano dalla ringhiera di ferro per afferrare quella della nonna. Uno sciame di maggiolini era ormai sopra le nostre teste per poi atterrare rovinosamente a terra tra l’odore intenso di acacie fiorite.
“ Con quei fiori “ disse la nonna indicandomi il boschetto” si facevano le frittelle delle spose “.
E riprendemmo il cammino verso Borgo.
La strada si snodava bianca e polverosa. Mi accorsi della polvere al passaggio di un camion carico di tronchi d’abete. Ricordo il suo muso, così diverso da quello piatto e monotono di adesso. Si, i camion della mia infanzia sembrava ti guardassero, avevano perfino un viso. L’ho ritrovato  qualche decennio più in  là a Los Angeles camminando sulla Wilshare. Lo stesso muso, il medesimo color verde bottiglia.
Il camion, dicevo, sollevava nuvole di polvere sudata. “Batti i piedi, così va via” diceva la nonna. Portavo delle piccole scarpe di vernice nera che la mamma comperava ogni anno a Pasqua da Mario Peruzola, il calzolaio del paese dal viso così antico ma così antico da sembrare uscito dal libro di fiabe dei Fratelli Grimm.
Battevo forte i piedi sul ciglio della strada, sull’erba cruda, mentre la nonna si riassettava la blusa, i capelli, il decolté. Controllai pure il mio coperto dal vestito  a nido d’ape, portai la mano tra i capelli raccolti sul lato da un fiocco dello stesso colore dei fiori di cicoria che ci  accompagnavano giù fino alle prime case. Già quel fiore di cicoria me lo porto  dentro da una vita più della genziana e scrivendo di fiori ho scoperto che pure Leonardo ne era innamorato.
Un’ora forse durò il viaggio prima di incontrare l’Ospedale, il vecchio Corso Ausugum, la piazza grande piena di tutta l’umanità valsuganotta. Donne dalle gonne scure che odoravano di legna bruciata e di stallatico, uomini con certi visi magri e ossuti, con lo zaino sulle spalle. Sopra il ponte della Brenta in piccole casse di legno vi era tutto un pigolare di pulcini. Quindi era primavera.
La nonna portava con se sempre quella strana borsa, trovata un giorno sul cofano di una macchina tedesca in piena seconda guerra. Dentro c’erano marchi, una penna d’oro, dei documenti, una ricetta per curare la sifilide. La portò al comando militare. Trattennero solo i documenti. La borsa della sifilide veniva chiamata e usata solo in rare occasioni.
Il mercato del Borgo era un enorme bazar di tutta un’artigianalità ormai perduta: pentole di rame in conflitto con quelle d’alluminio, napoletane per il caffè, mestoli di legno, pezze di stoffa tirolese, scarponi zaini e ombrelli.
Non c’era zucchero filato, ma a metà di corso Ausugum da quella bottega oscura del Gigetto usciva un profumo paradisiaco. Era il pasticcere del Borgo che sfornava ogni giorno piccole diplomatiche, moretti e  cannoncini, che si vantava , e a ragione, che per i suoi dolci usava solo il burro di Malga della Val di Sella. “ Ne compriamo sei, due per te , due per me, due per zio Franzele”. Risalendo  per ritornare a casa si fermò a un cancelletto di ferro con una piccola apertura. Era il sanatorio della valle. Zio Franzele, lo zio ceco, l’aspettava con la mano tesa.
Risalimmo e risalimmo, senza più nuvole di polvere, con il sole che dorava l’Ortigara, mano nella mano. Solo un pò sudate.
Senza sapere che più avanti in qualsiasi parte del mondo avrei portato con me l’infanzia e i suoi luoghi come fossero feticci, come piccole sicurezze dentro le accidentate metamorfosi della vita.
 
Laura Maria Zanetti
 
* tratta dalla raccolta di poesie inedite " Valle Ausugum "